Giochi dell'Oca e di percorso
(by Luigi Ciompi & Adrian Seville)
Avanti Home page Indietro
"Nobilissima armorum scientia, amabile et heroica"
Autore: Mascheroni&Tinti 
Nei tornei e nelle giostre medievali i paladini prima di affrontarsi, lancia in resta, al cospetto di una nobile madonna, chiamavano con un corno l’araldo d’arme al quale mostravano la divisa, lo scudo, l'elmo e il cimiero, loro segni di riconoscimento. “Blasen” in tedesco vuoi dire infatti “chiamare con un corno” e quando il cavaliere vinceva la sfida, innalzava sull’elmo due trombe che indicavano la nobiltà riconosciuta e “blasonata”. “Quindi viene ad intendersi chiaramente... l’Adagio Italiano, che suol dirsi per beffa a chi torna da impresa mal riuscita, egli torna colle Trombe nel sacco, cioè a dire, scornato come i perditori delle giostre, senza la Boria di poter innalzar Trofei sul capo.” Nato come arma di difesa, lo scudo dei gentiluomini che combattevano l’Infedele in Terra Santa, al ritorno da ogni valorosa spedizione si animava di ricordi gloriosi, riassunti e stilizzati da immagini allusive. Gli araldi annotavano in appositi registri le insegne dei cavalieri, il colore, la forma, le figure riportate sui loro scudi e dal XIII secolo stabilirono regole costanti per il blasone. Sotto il regno di Filippo Augusto, re crociato francese, si compilano repertori destinati a fissare leggi rigide e immutabili comprovanti l'autenticità dello stemma che diventa proprietà regolare ed ereditaria della famiglia. Nasce così l’araldica, “nobilissima armorum scientia, amabile et eroica”, che insegna a comporre le armi gentilizie, a decifrare il significato dei simboli rappresentati, a conoscere le grida di guerra. Arte che si avvale di un linguaggio tecnico spesso difficile, per la quale colore e tratteggi, posizioni e pezze onorevoli, teste d’aquila o profili di leone sono segni inconfondibili che raccontano la storia di una nobile famiglia e le sue mitiche gesta. Una curiosità per gli appassionati: anche l’oca è rappresentata sugli stemmi con piume grigio cenere, becco giallo, ali corte e rappresenta la vigilanza. Con il passare dei secoli, la polvere da sparo fa perdere allo scudo e agli ornamenti dei paladini la loro originaria funzione difensiva: il blasone diventa una carta da visita ante litteram, scolpito sulle torri dei castelli, intagliato nei mobili delle sale d’armi, impresso con un sigillo, gelosamente custodito dai discendenti. Dal XVII secolo in poi, quando in tutta Europa la nobiltà è il più valido appoggio dell’assolutismo monarchico, si stampano saggi eruditi come il famoso “Arte del Blasone” del padre gesuita Francesco Menestrier. Prerogativa della vita di corte, si sa, è il dilettarsi, e accanto a questi minuziosi repertori le stamperie più rinomate “tirano” tavole di giochi araldici che insegnano a blasonare le armi gentilizie e vengono anche usate nei collegi militari. Il geografo di sua Maestà Luigi XIII firma “Le Jeu du Blason”, l’esperto Menestrier inventa “Le chemin de l’Honneur “, “...che giuocasi a guisa d’ocha, spiega con il nome di Strada di honore, come s’habbiano a comporre gli Scudi, quali siano di molte honoranze, & ordini di Cavalleria le Divise” e a quest’ultimo si ispira “Lo Splendore della Nobiltà Napoletana”. La produzione di queste tavole è contraddistinta da un intaglio prezioso e raffinato, dall’intento didattico rivolto esclusivamente ai rampolli aristocratici destinati fin dalla nascita a familiarizzare con stemmi e fregi e dall’esaltazione della nobiltà solo come virtù legata a eroiche imprese e non commerciata o volgarmente acquisita: “nobiltà di spada, propria, intrinseca, perfetta”. Alla fine del Settecento la “voce” araldica, illustrata con meravigliose tavole, vive sull’Encyclopédie il suo ultimo momento di gloria prima che la Rivoluzione francese distrugga armi e blasoni, stemmi e privilegi. L’Oca non racconterà più le imprese dei Bentivoglio o dei Capuana fra onoranze e grida di guerra, sempre pronta a interpretare le nuove e diverse realtà che la Storia le prepara. Nell’ “Historia della città e del Regno di Napoli” del 1675, si apprende che i seggi erano “logge fatte per commodità de’ Nobili i quali vi si riducevano per trattare de li affari pubblici”; re Carlo I li adattò in sedi stabili per l’amministrazione della città. Ognuno di essi prendeva il nome da una famiglia nobile: Capuana, Montagna, Nido, Porto, Portanuova. Anche il popolo aveva il suo seggio, ma nel 1456 fu abbattuto per compiacere gli aristocratici.

Lo Splendore della Nobiltà Napoletana
C’è molta attesa nella Napoli fine Seicento, capitale di un regno sotto il dominio degli spagnoli, per i “freschi di stampa” di Antonio Bulifon, intraprendente libraio che soddisfa la curiosità del suo pubblico nobile, colto, tutto molto scelto per necessità storica (la lettura, si sa, era allora un lusso concesso a pochi) stampando preziosi volumi. Il nostro sa di contare su clienti affezionati che si ritrovano nella sua bottega “All’insegna della Sirena” e quando nel 1675 pubblica l’ “Historia della città e Regno di Napoli”, così si rivolge loro. “Il genio particolare, che io hò di servire à i virtuosi e per quanto possono le mie forze, di esser loro di qualche giovamento mi inducono non solamente a fare che essi habbiano con ogni facilità libri nuovi e curiosi che da Paesi Stranieri sò capitare in queste parti, ma anco a far rinascere al mondo per mezzo delle stampe quelli, che di già mancare si veggono...” Peccherà forse di presunzione il Bulifon, ma l’opera è davvero monumentale, cinque tomi finemente incisi, una radiografia storica dell’amata Napoli. Ma un pubblico come quello doveva essere molto esigente e forse anche maliziosamente in agguato, aspettando che il libraio di fiducia ripiegasse su qualche edizione... più commerciale, come si direbbe oggi. Bulifon non si smentisce e tre anni più tardi esce con “Lo Splendore della Nobiltà Napoletana”, raffinatissimo libro-gioco, finalmente il vero divertissement per quegli incontentabili aristocratici! Nell’avvertenza “il libraio a chi legge”, l’editore cita, quali sicure garanzie, le opere oltremontane da cui ha preso direttamente l’idea: provengono dal Regno di Francia, naturalmente, lì infatti l’araldica è un’arte, una moda, quasi un rito. Si sappia che il signore della Brianville abate di San Benedetto del Quinsai les Poitiers ha da poco inventato un gioco di carte araldiche per ammaestrare un giovane principe affinché imparasse, senza annoiarsi, le insegne, la geografia e la storia d’Europa. Meglio di lui ha fatto il geniale padre Francesco Menestrier con il già citato “Le Chemin de l’Honneur”. Se poi tutti questi nobili precedenti non bastassero, ecco cosa scrive Alessandro Partenio “grande ingenio della città” in una corrispondenza privata con un amico a proposito del gioco di prossima pubblicazione. “...si vedranno per mezo di questa Carta con bellissimo ordine, e simetria registrate le famiglie più celebri, e verrà ciascuno in pensiero, quel che operato elle si havessero ne’ secoli trasandati, a quale splendore giunte esse fussero; come dalla volubil Fortuna fossero state trattate, & in che stato, & in che ricchezze al presente si veggano... La tenera Gioventù educata fin hora con trattenimenti poco degni del sangue nobile, haverà (giuocando in questo Giuoco) non poco incentivo di animarsi ad operare cose magnanime, e generose... Vedrassi quell’Ocha, che con voce rauca fin hora andava hor quà, hor là stridendo per l’Hosterie, e per case di gente vile, divenuta un Cigno cantar soavemente presso le rive dell’ameno Sebeto; e celebrare per tutto il mondo con sincera, & erudita locutione lo splendore della Nobiltà Napoletana, ascritta ne’ cinque seggi..” Un ultimo cortese avvertimento: il lettore sia comprensivo con l'autore Carlo Torelli (forse più conosciuto come Toranio Asfilogista, suo nome di battaglia) che ha faticato non poco per tradurre fedelmente il vocabolario dei blasoni così tecnico e regole tanto complicate. Ci sarà qualche svista, qualche errore, ma presto sarà disponibile nella bottega “All'insegna della Sirena” una nuova opera, “L’Armerista Napoletano”, che spiegherà diffusamente tutta la materia.

Istruttione del modo, che si habbia a tenere nel Giuocare
Per avanzare senza incertezze attraverso gli stemmi della Nobiltà Napoletana, il giocatore deve conoscere tutte le leggi dell’arte araldica e “blasonare”, cioè “recitare regolarmente in voce”, l’arme dove arriva, descrivendola nei più nascosti particolari. Se sbaglia pagherà al “correttore” una somma convenuta che, si raccomanda, non sia troppo grave. Pericoli e insidie minacciano il suo cammino e come nelle altre tavole “classiche” anche in questa la mèta da raggiungere deve essere conquistata con l’aiuto di due dadi e di una sorte amica. Insieme all’alternarsi di fermate e sorpassi è sopravvissuta anche l’Oca che fa raddoppiare i punti, qui “nobilitata” nelle armi di Seggio disposte con la stessa cadenza regolare. E ancora: se i dadi dicono nove all’inizio del gioco, per non vincere subito la partita, ci si fermerà quattro scudi lontano da quello di Madonna la Principessa d’Avellino. Questo è il punto più importante del gioco perché qui si deve scegliere “la strada delle onoranze”: a destra dove ci sono i sacri ordini di Cavalleria, le Prelature dei Chierici, a sinistra tra le dignità dei Laici, dichiarando (senza volerlo) le proprie simpatie per i Papalini o per gli Spagnuoli. L’autore avverte: non è possibile variare il cammino una volta deciso, considerando di pari nobiltà sia il padiglione del Papa sia quello del Re. Per vincere bisogna occupare il luogo più alto nella strada della dignità e il giocatore deve gridare all’improvviso “san Pietro!” o “san Giacomo!” che sono i motti usati da Papalini e Spagnuoli durante i combattimenti. Ma, proprio accanto alle insegne di grado più nobile, ci sono gli scudi della Fellonia (come si può facilmente capire, il massimo del disonore) e a questo punto si perde il diritto di giocare aspettando che un altro cada sulla medesima insegna, macchiandosi di tanta infamia! Questi scudi sono vistosamente spezzati, poiché, ci informa l’autore, “il carnefice infrange sul talamo l’arme dei Felloni e disleali cavalieri”. Quando il giocatore occupa gli stemmi di una famiglia estinta deve pagare “per rizzare la bandiera”; essi appaiono rovesciati perché così venivano posti sul feretro e sotterrati con il cadavere. Positive invece sono le armi contrassegnate da un delfino “passato da dietro” perché appartengono alle famiglie dette Aquarie, le più antiche della città. Infine, si ricomincia il gioco capitando sullo scudo con le insegne di Gerusalemme: al grido di “Dio lo vuole”, il giocatore spiegherà che Gottifredo Buglione, capo della celebre Crociata, infranse la prima regola dell’arte araldica, ponendo metallo su metallo.


Carte Methodique
Dopo essersi esercitato nel “Jeu de la Guerre” tra assedi e fortificazioni, il duca di Borgogna, accettando l’umile dono del suo devotissimo servo Silvestre, dovrà cimentarsi con il complicato alfabeto araldico, dando prova di essere un perfetto cavaliere che sa non solo l’arte militare, ma anche quella dei blasoni. Jacques La Mariette aveva trovato un elegante sistema per aumentare le vendite: se monsignore si dilettava con le sue tavole, sarebbero sicuramente diventate “i giochi dell’anno”! E proprio perché destinate a un gentiluomo di siffatti natali, anche queste carte sono così preziose e raffinate, animate per l’occasione da scudi e stemmi dove Fanti, Regine e Re riportano notizie e curiosità dell’epopea araldica. Il Re di Quadri ci racconta che Luigi il Giovane scelse per primo il giglio come contrasigillo, ricordando il suo nome Ludovicus Florus, mentre dal Re di Picche sappiamo che Carlo VI volle tre gigli sul blasone di Francia in memoria della SantaTrinità. Impossibile descrivere tutte queste carte parlanti... non vogliamo togliere il piacere della scoperta. Se dieci e assi fanno raddoppiare i punti, il giocatore per vincere la partita deve comportarsi come un nobile paladino, preoccupato solo di provare il suo coraggio alla ricerca di insegne valorose come quelle di Gerusalemme al Dieci di Cuori, o concesse da un Re. Il suo cammino viene invece bruscamente interrotto e deve pagare alcuni gettoni quando si imbatte negli stemmi di qualche gentile Madonna, per esempio la Regina di Quadri, dama dei fusi con i quali i giovani gentiluomini ornavano i propri scudi in onore della donna amata. La Regina di Picche (qui Anna di Bretagna, vedova di Carlo VIII) lo farà “morire” e ricominciare la partita. Ci viene spontaneo pensare alla “Peppa Tencia” dei poveri: come si vede il rituale del gioco non conosce confini di classe. Le uniche insegne femminili che premiano il giocatore sono al Sette di Cuori, quelle della Pulzella d’Orléans, famosa donna guerriera, bruciata viva e poi proclamata santa, dalla vita più avventurosa di qualsiasi cavaliere!
 

Torna indietro